Nota critica a “Profanerie private” di Natalia Bondarenko (Guarnerio, 2010)


Federico Federici
I tre momenti in cui si articola Profanerie private ne sottendono solo esteriormente la struttura, ponendosi a macroscopica scansione di un vissuto inquieto, fondato su un “da vivere” più denso, buono a formulare ex novo l’intera vita. Il terreno è già segnato dalla scrittura, ma ancora non consolidato, tenero alle radici, mobilissimo. Sarebbe grossolano errore considerarli alla stregua di segnalibro in uno schedario, in un diario ordinato nel quale si riportano con metodo temi e tempi, secondo un’evoluzione lineare, dispiegata. Casomai, nei continui slittamenti, nelle ellissi temporali, si potrebbe richiamare l’improbabile protocollo cronologico allestito altrove da un’altra poetessa russa, Dar’ja Suchovej, («ammettiamo che sia martedì», «diamoci arie che sia giovedì» etc.), per raggruppare “scriteriatamente” l’esperienza, accumulando materiali e citazioni nella dialettica reperibilità-deperibilità del tempo.
I testi antologizzati non sono in traduzione, ma scritti originariamente in italiano, messi dunque a lungo in discussione nei loro minimi termini.
In questa prova con una diversa madre-lingua, madre-matrigna, Bondarenko trasporta e consolida costrutti e tensioni della propria lingua-madre. Si scorga una spia di ciò negli scatti d’apertura come in «Ieri/ (davvero)/ ero stanca», o in altri felici passaggi nei quali l’omissione del verbo, o la spezzatura del verso richiamano lo schema limpido, elencativo del russo.
Anche l’utilizzo di un’immagine guida in alcune poesie, di un centro d’espansione dietro il testo, al quale richiamare tutte le parole e dal quale poi dispiegarle, è prova consolidata della stessa tradizione.
La poesia è un momento di passaggio nella vita, di scelta da una prima attitudine tenacemente onnivora, inclusiva di tutti i materiali e gli episodi, alla rivelazione di una verità ispirata, che pure non si riesce a scrivere mai completamente, a interrogare se non trasfigurandola, invalicabile e refrattaria alla parola. Bondarenko sa di questo ostacolo, lo approssima restando sempre sul versante della vita, adoperandosi a sottrarre l’elemento biografico, in cerca di uno strato comune a tutte le esperienze.
Non affiorano quasi mai esplicite domande (alcune solo sottintese nell’intonazione). Più frequenti sono le invocazioni rivolte all’esterno del testo, verso la vita, a “tu” non connotati (non immaginari però, spesso tentati al dialogo), che diventano un “voi” collettivo in attesa di definizione, nel quale si abbracciano, in un unico respiro, gli affetti conosciuti e quelli appena nati ([...] «Mi porgo risposte/ prima di fare domande. È futile/ il crepacuore che supera i limiti/ di velocità degli ultimi eventi»). Forse ciò accade perché ogni domanda presuppone anzitutto un futuro per essere completata, mentre qui l’ansia è rivolta all’indietro, scacciata oltre il tentativo di ricostruzione di ciò che è andato disgregandosi: la famiglia, la terra d’origine, gli amori («Mi parlerai di nevi sconfinate,/ [...] del vento dell’Est,/ [...] poco accogliente/ penetrante// della casa mia/ nella soffocante fioritura/ dell’acacia dove/ un’estranea dalla finestra/ chiamerà qualcuno/ che non conosco// mi chiederai degli uomini avuti/ [...]e alla fine/ parlerai di niente» o ancora «Non perdo niente/ ho perso tutto// quando ho lasciato la tua casa, mamma»). Si tratta, anche nei casi più felici, di non-risposte, di prove di verità esibite mettendo assieme indizi storici e biografici, spesso ricondotti a un’eco sotterranea, che sostiene tutta la raccolta: il sé e l’altro («Tu per io/ io per tu.// Facile estraniarsi/ silenzi permettendo»), il Dio biblico (ma è «un altro Dio che non è proprio un Dio») o la sua ricostruzione privata («Non sono Il Cristo./ Sono Una, quella della costola/ una sua versione»). L’assenza di qualsiasi certezza trascendente non si risolve in un’ansia sapienziale, ma viene riconsegnata alla dimensione quotidiana di una prassi quasi grottesca, affidata con sarcasmo al gioco della parola («Sto aspettando il diluvio promesso.// Mi vesto a proposito./ L’impermeabile/ è troppo largo. Non è mio. È tuo. Ride/ lo specchio non trovando alcuno senso»).
Lungo l’intero svolgimento, questo doppio fondo non svelato, cifrato, quasi custodito nello spazio del non detto, non testimonia una conflittualità in più tra Bondarenko e il proprio tempo, ma una diversa complementarità, più mite, ma non meno risoluta di un’opposizione.
L’intonazione cerca l’esattezza dell’ironia, utilizzando ad espediente costrutti sequenziali, il cui ultimo termine («sono un punto/ di domanda») sposta la certezza fondata sui precedenti («non mi sono mai piaciuti i ‘triangoli’/ neppure i rombi/ figuriamoci i trapezi/ i pentagoni o gli esagoni»), oppure costruendo intorno a familiari modi di dire una più acuta metafora, come in «sono una frana», quando già carica di implicazioni era l’identità lacrima-pietra.
L’impianto drammatico è spesso allestito con la leggerezza del gesto metodico e preciso, o persino del gioco spensierato, che dilata il disagio del grottesco nelle cose: la sforbiciata netta alle ali di un’incognita-farfalla, la distrazione improvvisa di un lillà spaventato, la frastornante compagnia dei passeri.
Altrove la scrittura si accende in una lirica scaltra, dagli accostamenti aspri, nervosi, vivaci («Il mio male come un seme/ si pianta perfettamente nella voragine/ aperta da un po’/ per spuntare»), talvolta ha tratti più misurati, cauti, sempre velati di una fiducia mal riposta, di una confidenza non corrisposta («Perché non mi scrivi/ due righe/ anche d’addio.// Sarò felice/ pensando che sei guarito»).
Per la vita ci sono continue sospensioni e cesure, che neppure la scrittura può forzare consolandole, e ci sono faticose resistenze alla speranza («mi giro dall’altra parte/ o, almeno, ci sto provando»), vulnerabilità minute nelle pieghe delle cose e nelle parole, nelle quali un dolore atteso, vigilato, riesce ad alleggerirsi appena («il mio male mi fa bene»).


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