Federico
Federici
I tre
momenti in cui si articola Profanerie private ne sottendono solo
esteriormente la struttura, ponendosi a macroscopica scansione di un vissuto
inquieto, fondato su un “da vivere” più denso, buono a formulare ex novo l’intera
vita. Il terreno è già segnato dalla scrittura, ma ancora non consolidato,
tenero alle radici, mobilissimo. Sarebbe grossolano errore considerarli alla
stregua di segnalibro in uno schedario, in un diario ordinato nel quale si
riportano con metodo temi e tempi, secondo un’evoluzione lineare, dispiegata.
Casomai, nei continui slittamenti, nelle ellissi temporali, si potrebbe
richiamare l’improbabile protocollo cronologico allestito altrove da un’altra
poetessa russa, Dar’ja Suchovej, («ammettiamo che sia martedì», «diamoci arie
che sia giovedì» etc.), per raggruppare “scriteriatamente” l’esperienza,
accumulando materiali e citazioni nella dialettica reperibilità-deperibilità
del tempo.
I testi antologizzati non sono in traduzione, ma scritti originariamente
in italiano, messi dunque a lungo in discussione nei loro minimi termini.
In
questa prova con una diversa madre-lingua, madre-matrigna, Bondarenko trasporta
e consolida costrutti e tensioni della propria lingua-madre. Si scorga una spia
di ciò negli scatti d’apertura come in «Ieri/ (davvero)/ ero stanca», o in
altri felici passaggi nei quali l’omissione del verbo, o la spezzatura del
verso richiamano lo schema limpido, elencativo del russo.
Anche l’utilizzo di
un’immagine guida in alcune poesie, di un centro d’espansione dietro il testo,
al quale richiamare tutte le parole e dal quale poi dispiegarle, è prova
consolidata della stessa tradizione.
La poesia è un momento di passaggio nella
vita, di scelta da una prima attitudine tenacemente onnivora, inclusiva di
tutti i materiali e gli episodi, alla rivelazione di una verità ispirata, che
pure non si riesce a scrivere mai completamente, a interrogare se non
trasfigurandola, invalicabile e refrattaria alla parola. Bondarenko sa di
questo ostacolo, lo approssima restando sempre sul versante della vita,
adoperandosi a sottrarre l’elemento biografico, in cerca di uno strato comune a
tutte le esperienze.
Non affiorano quasi mai esplicite domande (alcune solo
sottintese nell’intonazione). Più frequenti sono le invocazioni rivolte
all’esterno del testo, verso la vita, a “tu” non connotati (non
immaginari però, spesso tentati al dialogo), che diventano un “voi” collettivo
in attesa di definizione, nel quale si abbracciano, in un unico respiro, gli
affetti conosciuti e quelli appena nati ([...] «Mi porgo risposte/ prima di
fare domande. È futile/ il crepacuore che supera i limiti/ di velocità degli
ultimi eventi»). Forse ciò accade perché ogni domanda presuppone anzitutto un
futuro per essere completata, mentre qui l’ansia è rivolta all’indietro,
scacciata oltre il tentativo di ricostruzione di ciò che è andato
disgregandosi: la famiglia, la terra d’origine, gli amori («Mi parlerai di nevi
sconfinate,/ [...] del vento dell’Est,/ [...] poco accogliente/ penetrante// della
casa mia/ nella soffocante fioritura/ dell’acacia dove/ un’estranea dalla
finestra/ chiamerà qualcuno/ che non conosco// mi chiederai degli uomini avuti/
[...]e alla fine/ parlerai di niente» o ancora «Non perdo niente/ ho perso
tutto// quando ho lasciato la tua casa, mamma»). Si tratta, anche
nei casi più felici, di non-risposte, di prove di verità esibite mettendo
assieme indizi storici e biografici, spesso ricondotti a un’eco sotterranea,
che sostiene tutta la raccolta: il sé e l’altro («Tu per io/ io per tu.//
Facile estraniarsi/ silenzi permettendo»), il Dio biblico (ma è «un altro Dio
che non è proprio un Dio») o la sua ricostruzione privata («Non sono Il
Cristo./ Sono Una, quella della costola/ una sua versione»). L’assenza di
qualsiasi certezza trascendente non si risolve in un’ansia sapienziale, ma
viene riconsegnata alla dimensione quotidiana di una prassi quasi grottesca,
affidata con sarcasmo al gioco della parola («Sto aspettando il diluvio
promesso.// Mi vesto a proposito./ L’impermeabile/ è troppo largo. Non è mio. È
tuo. Ride/ lo specchio non trovando alcuno senso»).
Lungo l’intero svolgimento,
questo doppio fondo non svelato, cifrato, quasi custodito nello spazio del non
detto, non testimonia una conflittualità in più tra Bondarenko e il proprio
tempo, ma una diversa complementarità, più mite, ma non meno risoluta di
un’opposizione.
L’intonazione cerca l’esattezza dell’ironia, utilizzando ad
espediente costrutti sequenziali, il cui ultimo termine («sono un punto/ di
domanda») sposta la certezza fondata sui precedenti («non mi sono mai piaciuti
i ‘triangoli’/ neppure i rombi/ figuriamoci i trapezi/ i pentagoni o gli
esagoni»), oppure costruendo intorno a familiari modi di dire una più acuta
metafora, come in «sono una frana», quando già carica di implicazioni era
l’identità lacrima-pietra.
L’impianto drammatico è spesso allestito con la
leggerezza del gesto metodico e preciso, o persino del gioco spensierato, che
dilata il disagio del grottesco nelle cose: la sforbiciata netta alle ali di un’incognita-farfalla,
la distrazione improvvisa di un lillà spaventato, la frastornante compagnia dei
passeri.
Altrove la scrittura si accende in una lirica scaltra, dagli
accostamenti aspri, nervosi, vivaci («Il mio male come un seme/ si pianta
perfettamente nella voragine/ aperta da un po’/ per spuntare»), talvolta ha
tratti più misurati, cauti, sempre velati di una fiducia mal riposta, di una
confidenza non corrisposta («Perché non mi scrivi/ due righe/ anche d’addio.//
Sarò felice/ pensando che sei guarito»).
Per la vita ci sono continue
sospensioni e cesure, che neppure la scrittura può forzare consolandole, e ci
sono faticose resistenze alla speranza («mi giro dall’altra parte/ o, almeno,
ci sto provando»), vulnerabilità minute nelle pieghe delle cose e nelle parole,
nelle quali un dolore atteso, vigilato, riesce ad alleggerirsi appena («il mio
male mi fa bene»).
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