alcune poesie:
Dopo un
singhiozzo, in un’ambulanza,
usciva
la mia testa… finalmente…
su un
panno
calpestato
prima dagli scarponi dell’autista,
le mie
spalle si appoggiavano
sulla
brace delle luci abbaglianti, sulle righe
poco
rette, sull’inganno.
Le dita
che tiravano il mio braccio sinistro
sapevano
di tabacco, le altre –
di
mozziconi raccolti da terra.
Quando
usciva l’ombelico – ho capito che
da
grande avrei fatto l'uncinetto, guardando giù,
come
fanno le donne sottomesse,
stordite
dai passi delle formiche, con le lingue
legate
ai denti, con il cuore che sa solo ululare.
Ma…
porca miseria!
Dovevo
uscire con le gambe avanti
per
saper camminare da sola.
***
Mi prendi in giro tu
per come parlo la tua lingua,
per come sfuggo alle sue regole
per come la maltratto (per forza
di cose), ma è soltanto
un fatto di abitudine, trasmesso
da madre a figlia, dal seno al sangue,
dalla radice all'albero che combatte
la sete e non muore. Perciò
stai rimbambocciato quando prego,
le mani nelle tasche. (Nel caso
peggiore – dentro il naso) a dubitare
della mia vecchia abitudine
di rimanermi fedele. Sapessi com’è
difficile abituarsi all’ignoto.
Mi prendi in girò (tu) per come
vivo senza vivere. Per come tento
di vivere quando spezzo il pane o
taglio a cubetti regolari la verdura
per l’insalata russa che non ti piace
dentro un alveare umano prima
che suonasse il campanello dove
il vicino è soltanto uno sconosciuto
e tu, che dividi il letto con me,
sei ancora più sconosciuto
del mio vicino.
***
Io
so entrare. Io non ho mai paura di entrare da nessuna parte.
Il
problema è che uscire non è sempre
facile, non so uscire bene.
Sono
capace entrare in diversi modi, anche
dando un calcio
in
avanti con un piede o, quasi chiedendo il permesso,
educatamente,
in punta dei piedi.
A
volte non so neanche come entro:
qualcosa mi trascina dentro,
mi
coinvolge, mi macina e poi, mi sputa fuori e…
non
mi par neanche di esserci mai stata dentro. Pensandoci bene,
non
mi è mai capitato di entrare dalla
porta principale.
Anche
quando ero piccola, cercavo sempre le scorciatoie,
i
sotterfugi o qualche congiuntura. Perché, se volevo entrare,
dovevo
entrare,
ma
mai senza spintoni, mai, senza battaglie
da affrontare. Poi,
per uscire (perché a volte bisognava uscire
in tempo)
perdevo
la strada, diventavo morbida come burro, mi impastavo
con
i piedi nella melma, mi impantanavo fino al collo.
Ho
la memoria lunga, che, però, non ricorda
i particolari. Viaggia
su
binari strani, si confonde nelle nebbie, negli acquazzoni,
nei
bui di notti milanesi quando ero falsamente spensierata,
sapientemente
sprovveduta e trovavo qualsiasi scusa
pur
di entrare. Dovevo entrare da una parte
per
contemporaneamente uscire dall’altra.
Perché uscire subito
significava
rimanere fuori. E rimanere fuori la trovavo una cosa
poco
accogliente. Poi, a volte, invece di entrare,
mi imbucavo.
E si
sa, che quando tu entri in un buco –
uscire è veramente molto complicato. Ma
c’era sempre qualcuno
che
mi dava uno spintone nel momento giusto o un calcio
sotto
il sedere. Sono uscita sempre.
Sono
uscita quasi sempre. Con il culo
pieno di botte. A volte,
con
il culo per terra.
***
La voragine fra le
ginocchia,
[meno carne
più pentimento]
si ciba del momento
di pace,
ma, non ho solo
labbra
per mimare il muto
del Sacro,
per osannarmi.
Ho un guardaroba
che mi veste
come una bambola,
copre la fregatura
del seno,
lasciando l’anima
scalza
e spoglia a
qualcuno
che si intende solo
di moda.
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