il poemetto CONFIDENZE CONFIDENZIALI - Rayuela Edizioni (MI), 2013




alcune poesie:


Dopo un singhiozzo, in un’ambulanza,
usciva la mia testa… finalmente…
su un panno
calpestato prima dagli scarponi dell’autista,
le mie spalle si appoggiavano
sulla brace delle luci abbaglianti, sulle righe
poco rette, sull’inganno.
Le dita che tiravano il mio braccio sinistro
sapevano di tabacco, le altre
di mozziconi raccolti da terra.
Quando usciva l’ombelico – ho capito che
da grande avrei fatto l'uncinetto, guardando giù,
come fanno le donne sottomesse,
stordite dai passi delle formiche,  con le lingue
legate ai denti, con il cuore che sa solo ululare.

Ma… porca miseria!
Dovevo uscire con le gambe avanti
per saper camminare da sola.


***

Mi prendi in giro tu
per come parlo la tua lingua,
per come sfuggo alle sue regole
per come la maltratto (per forza
di cose), ma è soltanto
un fatto di abitudine, trasmesso
da madre a figlia, dal seno al sangue,
dalla radice all'albero che combatte
la sete e non muore. Perciò
stai rimbambocciato quando prego,
le mani nelle tasche. (Nel caso
peggiore – dentro il naso) a dubitare
della mia vecchia abitudine
di rimanermi fedele. Sapessi com’è
difficile abituarsi all’ignoto.
Mi prendi in girò (tu) per come
vivo senza vivere. Per come tento
di vivere quando spezzo il pane o
taglio a cubetti regolari la verdura
per l’insalata russa che non ti piace
dentro un alveare umano prima
che suonasse il campanello dove
il vicino è soltanto uno sconosciuto
e tu, che dividi il letto con me,
sei ancora più sconosciuto
del mio vicino. 



***
Io so entrare. Io non ho mai paura di entrare da nessuna parte.
Il problema è che uscire non è sempre facile, non so uscire bene.
Sono capace entrare in diversi modi, anche dando un calcio
in avanti con un piede o, quasi chiedendo il permesso,
educatamente, in punta dei piedi.
A volte non so neanche come entro: qualcosa mi trascina dentro,
mi coinvolge, mi macina e poi, mi sputa fuori e…
non mi par neanche di esserci mai stata dentro. Pensandoci bene,
non mi è mai capitato di entrare dalla porta principale.
Anche quando ero piccola, cercavo sempre le scorciatoie,
i sotterfugi o qualche congiuntura. Perché, se volevo entrare,
dovevo entrare,
ma mai senza spintoni, mai,  senza battaglie da affrontare. Poi,
per uscire (perché a volte bisognava uscire in tempo)
perdevo la strada, diventavo morbida come burro, mi impastavo
con i piedi nella melma, mi impantanavo fino al collo.

Ho la memoria lunga, che,  però, non ricorda i particolari. Viaggia
su binari strani, si confonde nelle nebbie, negli acquazzoni,
nei bui di notti milanesi quando ero falsamente spensierata,
sapientemente sprovveduta e trovavo qualsiasi scusa
pur di entrare. Dovevo entrare da una parte
per contemporaneamente uscire dall’altra. Perché  uscire subito
significava rimanere fuori. E rimanere fuori la trovavo una cosa
poco accogliente. Poi, a volte, invece di entrare, mi imbucavo.
E si sa, che quando tu entri in un buco –
uscire è veramente molto complicato. Ma c’era sempre qualcuno
che mi dava uno spintone nel momento giusto o un calcio
sotto il sedere. Sono uscita sempre.
Sono uscita quasi sempre. Con il culo pieno di botte. A volte,
con il culo per terra.

***
La voragine fra le ginocchia,
     [meno carne
     più pentimento]
si ciba del momento di pace,
ma, non ho solo labbra
per mimare il muto del Sacro,
per osannarmi.
Ho un guardaroba
che mi veste
come una bambola,
copre la fregatura del seno,
lasciando l’anima scalza
e spoglia a qualcuno
che si intende solo di moda.

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