POSSIBILE INDIVIDUAZIONE DI UN ITINERARIO CONOSCITIVO E AUTOCONOSCITIVO DA “TERRA ALTRUI” A “CONFIDENZE CONFIDENZIALI”.


Recensione di Marco De Giorgio

Già dal titolo. Già dai titoli. Si potrebbe di primo acchito, ma in modo parziale e superficiale, come vedremo, parlare di topografia esteriore e di topografia interiore come caratteristiche fondamentali, essenziali, peculiari che contraddistinguono le due sillogi poetiche di Natalia Bondarenko che verranno
prese in esame di seguito. In tal senso si potrebbe così far riferimento a una sorta di “topografia esteriore” relativamente a “Terra altrui” e di “topografia interiore” a proposito di “Confidenze confidenziali”. Ma evidentemente, come si è accennato e come si vedrà, le cose non stanno, per lo meno esclusivamente, sic et simpliciter, in questi termini. O non solo in questi termini. Sarebbe appunto troppo semplice, banale, prevedibile, scontato.
Veniamo dunque ad esporre più precisamente e dettagliatamente ciò che si intendeva dire a proposito dei titoli stessi. Leggendo con attenzione queste due raccolte, magari di seguito, pare d’individuare un possibile itinerario, sia conoscitivo, sia soprattutto autoconoscitivo che, nelle sue principali connotazioni, nelle sue specifiche peculiarità ci viene già in parte anticipato, suggerito, appunto dai titoli delle sillogi. “Confidenze confidenziali” sembrerebbe presupporre infatti la presenza inevitabile di un interlocutore con cui potersi confidare, a cui esporre la propria “topografia interiore” (o quanto meno vengono suggeriti l'anelito, la ricerca, il desiderio di trovarlo questo eventuale interlocutore), mentre “Terra altrui” parrebbe comunicarci la presenza di qualcosa di inanimato, la terra appunto, che al limite può essere il substrato necessario affinché la vita, il dialogo si sviluppino, ma che vita e dialogo ancora non sono; questo qualcosa comunque si trova, è situato concretamente fuori da sé, è appunto “topografia esteriore” (vedremo di seguito come questi due concetti sovente possano interagire, interloquire fino di fatto a sovrapporsi). E con qualcosa che vita non è, che è inanimato, dialogare, “confidarsi” non è con
ogni evidenza possibile, a meno di non cadere in un vano e folle soliloquio. Ed in più questo qualcosa, questa terra è “altrui”, viene sentita quindi come estranea, aliena, non propria, e probabilmente propria non lo sarà mai. Peraltro non è che i vari interlocutori “in carne ed ossa” presenti in “Confidenze” siano sentiti sempre vicini, adeguati, compassionevoli (nel senso che possano condividere le varie, molteplici e multiformi “passioni” dell’animo umano), anzi. Forse sono ancor più colpevoli, in quanto viventi, di estraneità, di alterità. Ma quanto meno con un essere vivente e senziente si può concepire l’illusione, fugace, ma che pur sempre costantemente si rinnova, di un dialogo. In un vivente si può individuare il ricettacolo, il destinatario delle proprie confidenze. Illudendosi, forse. Almeno questo è quanto non di rado possiamo ricavare dai versi dell’autrice. Va anche poi detto che il concetto di terra, nel suo immenso campo semantico, presuppone innumerevoli possibili significati, smisurate sfaccettature e sfumature. La terra può, come si è visto, essere fondamentale presupposto alla vita; il concetto di terra può quindi veicolare il concetto di fertilità, di generazione, di ri-generazione e così via, ma può altresì comportare anche i concetti di separazione attraverso un confine, un limite più o meno naturale e quindi un senso di possesso, che evidentemente presuppone i concetti di proprietà e conseguentemente di estraneità, di privazione rispetto a questa proprietà. I componimenti di “Terra altrui”, a mio modo di vedere, sottolineano, piuttosto che le possibilità generative, vitalistiche della terra, le sue caratteristiche di suddivisione, di separazione, sovente arbitraria e dalle origini cruente, tra ciò che appartiene e ciò che non appartiene. Del resto il titolo è decisamente esplicito, a tale proposito.
Fatte queste premesse iniziamo dunque ad esaminare più nel dettaglio la poetica dell’autrice, le caratteristiche peculiari della sua versificazione, nonché le similitudini, le differenze rilevabili tra le due raccolte prese in considerazione.
Non sembra azzardato rilevare nei versi di Natalia Bondarenko la radice della più autentica anima russa, e questo sotto molteplici aspetti, ma preme sottolineare in particolar modo la possibile relazione che intercorre tra la poesia della nostra ed il concetto di “straniamento” (отстранение) per come lo intendeva il critico russo Viktor Sklovskij, laddove quest’ultimo evidenziava come sia possibile percepire, conoscere la realtà, anche e soprattutto la più consueta, abituale, come se fosse  qualcosa che s’incontra la prima volta, generando una sequela di situazioni o rapporti imprevedibili. E Sklovskij, per meglio illustrare questa sua teoria, ricorre a un racconto di Tolstoj, “Kholstomer”, che narra la vita di un cavallo vista da parte del cavallo, con gli occhi del cavallo, con i pensieri, la logica ed i sentimenti del cavallo. E’ evidente che agli occhi di un ipotetico umano la stessa realtà oggettiva, ancorché banale, consueta, quotidiana risulterà ora impensabilmente nuova, sorprendente, trasfigurata, appunto straniante, alienante e alienata laddove considerata secondo l’ottica di un equino. E questo senso di straniamento, di alienazione è a tratti potentissimo nella poesia di Bondarenko, vuoi anche, se non soprattutto, per il fatto di trovarsi come si è visto in una “terra altrui”. E colui il quale è abituato da una vita a vivere in questa terra, che invece per lui è “propria”, leggendo questi versi, dovrebbe trovarsi in una condizione non dissimile da chi avesse letto le considerazioni del cavallo di cui sopra, considerazioni evidentemente difformi, contraddittorie, antitetiche rispetto a quelle del suo, poniamo, proprietario, ancorché relative ad una apparentemente identica realtà fattuale.
Ed in tal senso è proponibile anche un possibile aggancio al concetto di ribaltamento dei valori e dei ruoli di cui parla un altro importante critico russo, ovvero Michail Bachtin, che nei suoi studi su Rabelais e la cultura popolare, identifica nei vari rituali carnascialeschi la possibilità di rinnovamento del singolo individuo proprio in quanto inserito in un contesto “straniante”, nuovo, inedito, in cui tutte le convenzioni e tutti i ruoli risultano sovvertiti, ribaltati. Tutto viene visto con occhi nuovi. Vedremo di seguito, esaminando alcuni esempi concreti di versificazione, come in essi si possa ravvisare quella che potremo non indebitamente chiamare appunto una poetica dello straniamento.
Ed è anche la condizione di viaggiatore, di ospite in una “terra altrui” a costringere a vedere il tutto nonché ogni singola, specifica cosa con “occhi nuovi”; a tale proposito vengono in mente le parole di un altro scrittore russo, Isaak Babel’, che in uno dei suoi racconti appartenenti alla raccolta “L’armata a cavallo” presupponeva la necessità della distanza, di porsi al di fuori, in lontananza, per poter meglio distinguere, considerare e valutare “sia il singolo albero così come l’intera foresta”. Da una certa distanza, quindi, si riesce a contemplare meglio e a meglio comprendere anche quello che è il proprio paesaggio interiore, per quello che è nella sua interezza e globalità. Topografia esteriore ed interiore non sono elementi così dissimili ed inconciliabili, dunque.
E un’inedita, sorprendente sintesi straniante, che ha senz’ombra di dubbio anche l’intento specifico e deliberatamente ricercato di spiazzare il lettore, di lasciarlo vagamente interdetto e confuso, viene sovente ottenuta tramite l’accostamento inconsueto, sorprendente d’immagini e di concetti tra loro distanti, non familiari, difficilmente compatibili nella pratica quotidiana, fino quasi a raggiungere una sovrapposizione degli stessi, in modo da rendere pressoché inconoscibile la loro specificità originale, un po’ come accade nell’esperienza onirica, laddove sorgono inedite, nuove entità, laddove un oggetto, un qualsivoglia oggetto (ma potrebbe trattarsi anche di un luogo, una persona, un animale etc.) in seguito all’esperienza del sogno non è appunto più lo stesso di prima, non è più conoscibile, riconoscibile per com’era precedentemente. L’esperienza onirica ha la funzione di trasfigurare l’”oggetto” che lo riguarda, di renderlo definitivamente nuovo, irriconoscibile. E sotto numerosi aspetti la poesia di Bondarenko richiama gli aspetti ora citati, riuscendo a stimolare nel fruitore, come peraltro l’arte dovrebbe sempre fare, l’insorgere di inattese epifanie.
Si è anche detto poc’anzi dell’utilizzo di termini dall’ambito semantico distante, a tratti contraddittorio, come strumento atto ad ottenere la sorpresa, la novità, lo straniamento. La terminologia utilizzata dalla nostra solitamente è estremamente realistica, trae spunto costante dal quotidiano, non raramente è cruda, a tratti addirittura crudele, spietata, del tutto priva di fronzoli, di qualsivoglia senso di autocompiacimento. Numerosi sono gli esempi che si potrebbero citare a tale proposito. Parallelamente a ciò va inoltre detto come l’autrice faccia ricorso, con esiti estremamente significativi, a momenti di sinestesia, laddove il colore diventa suono (ricordiamo che è anche pittrice e fotografa), il suono colore, laddove sensazioni tattili si mescolano e si confondono con sensazioni olfattive, uditive, visive e via dicendo. Un esempio particolarmente significativo che può illustrare quanto appena detto lo si può trovare, a mio modo di vedere, nel verso “La neve prendere a schiaffi la pelle…”. E’ evidente l’inconsuetudine dell’immagine proposta, in quanto la neve (di per sé più che altro un “concetto visivo”) viene di solito associata ad assenza o quasi di suono (mentre, dal punto di vista appunto “sonoro” lo schiaffo possiede addirittura una sua specifica versione onomatopeica, addirittura fumettistica), in quanto la neve corrisponde a qualcosa di estremamente soffice, ovattato, affatto privo di violenza e brutalità (a meno che non si tratti di una tempesta di neve, evidentemente). Quest'immagine non è del tutto dissimile, paradossalmente, dal concetto zen di riuscire ad udire il suono di uno schiaffo nel vuoto, cosa di per sé, con ogni evidenza, alquanto improbabile.
Si è quindi detto della tecnica dello straniamento, della ricerca di dare nuovo significato alla parola, della necessità di darle, ridarle valore spogliandola di quanto di banale, di abusato la riguarda. Viene sentita la necessità di donare una nuova, sincera, “verginità” alla parola, ad ogni singola parola, anche a costo di, parafrasando alcuni versi contenuti in “Confidenze confidenziali”, renderla sovrumana, di balbettarla, di massacrarla, di appenderla, quasi fosse un condannato a morte, a una corda, a un cappio. E tutto ciò, ce lo dice l’autrice stessa, per “farla guarire”, per farla sentire “viva prima di morire”. Perché la morte sarà inevitabile premessa di rinascita, di rinnovamento, così come il viaggio, voluto o imposto che sia. Ritornando quindi brevemente al concetto esposto in precedenza di dover quasi brutalizzare qualcosa che magari in precedenza era stato indubbiamente carico di un portato estetico importante, ma che in seguito è stato irrimediabilmente banalizzato dall’abuso di cui è stato vittima, onde ridargli vita, senso, significato, si potrebbe individuare una possibile analogia a quanto fatto da Marcel Duchamp alla Gioconda (ricordiamo nuovamente l’attività figurativa di Bondarenko). In sintesi: per far vedere quanto era bella la Gioconda senza i baffi, i baffi dovevano esserle dipinti.
Si è accennato in precedenza alle scelte lessicali e linguistiche dell’autrice, che nella maggior parte dei casi ha ricorso a un vocabolario che trae spunto dal quotidiano, non tralasciando espressioni crude, violente. Tali episodi si alternano tuttavia con momenti, diremmo, più lirici, come peraltro avviene nell’esperienza onirica, laddove il sogno lascia spazio all’incubo, si alterna, si sovrappone, si mescola all’incubo. Così come nella vita. E alla vita, a tutta la vita, alla vita nella sua interezza Bondarenko si ispira. Trae spunto, potenzialmente, da ogni cosa. A priori tutto può essere oggetto e soggetto legittimo di poesia. Come diceva Gregory Corso, si può concepire la magia (la poesia) dal più banale luogo comune (“out of commonplace”), e Allen Ginsberg si spingeva ancor oltre, attribuendo connotazioni di santità (Holy… holy… etc.) a ogni aspetto dell’esistenza (ma già San Francesco d’Assisi, qualche anno prima di lui, aveva peraltro intuito qualcosa di non dissimile).
La ricerca di un nuovo, inedito significato, o quanto meno di un significato riconquistato, a proposito della parola, la ricerca di una sua possibile nuova, inedita, o quanto meno riconquistata, “verginità” è tuttavia metafora e preludio alla ricerca di un nuovo, o quanto meno riconquistato, significato che riguardi l’esistenza. E l’artista possiede appunto la parola, il suono, il colore etc. come possibili, potenziali strumenti con cui condurre questa ricerca. Che è poi ricerca anche di redenzione, altro motivo portante della poesia di Bondarenko, in particolar modo in “Confidenze confidenziali”. E per poter giungere a una possibile “redenzione” (si veda il sopracitato concetto di “santificazione del tutto”), bisogna tuttavia passare attraverso un difficile, complesso, penoso processo di comprensione, e quindi di ri-valutazione e accettazione di ogni aspetto dell’esistenza. A cominciare dalla nascita. Ogni evento necessita una rilettura, una reinterpretazione, una riconsiderazione (numerosissimi sarebbero gli esempi che si incontrano in tal senso nell’opera di Bondarenko); ogni qual cosa, anche quella apparentemente più incomprensibile, impensabile, ingiustificabile deve essere ripensata, riconsiderata, reinterpretata. Quanto meno per poter sopravvivere. Prima di tutto a sé stessi, al proprio passato (ma anche al proprio presente e al proprio futuro), con cui è assolutamente necessario venire a patti, ancorché ciò sia estremamente difficile, ancorché il passato non di rado venga interpretato come una sorta di tiranno da cui non ci si riuscirà mai ad affrancare del tutto, completamente:
“... Però,
 non ho scelta e devo stare dentro tutte queste cose,
 devo continuare ad essere obbediente alle lacrime,...”

Va inoltre sottolineato come un'ulteriore difficoltà da affrontare sia per la nostra autrice connessa al fatto di essere una donna; ovunque troviamo, tra i versi di entrambe le raccolte, riferimenti ai problemi relativi a una condizione femminile che rende oltre modo impervio il percorso di chi voglia affermarsi ed essere riconosciuto come artista a tutti gli effetti, ma soprattutto come “persona”. In tal senso, ma anche in questo caso gli esempi a cui far ricorso sarebbero innumerevoli, pare particolarmente significativa la chiusa della poesia con cui inizia “Confidenze confidenziali”, laddove si legge, con evidente allusione alla morte:
“Ma... porca miseria!
Dovevo uscire con le gambe avanti
per saper camminare da sola.”

E per chi sente e considera con così profonda e disillusa sofferenza la propria condizione di alienazione, di solitudine, di mancanza, di vuoto, la necessità di incontrare, di individuare un possibile interlocutore (sovente anch'esso illusorio, “sbagliato”) con cui rapportarsi diventa una necessità inevitabile, diremmo quasi fisiologica. In “Terra altrui”, in tal senso, l'interlocutore d'elezione, se non addirittura l'unico possibile, sembrava essere soltanto la propria ombra, come si può ricavare dai seguenti versi:
“Mi hai creduto pazza
nel sentirmi parlare a voce alta e ridere
ballando sull'asfalto bagnato dalla pioggia
appena atterrata

ho trovato un interlocutore interessante
che era disposto ad ascoltarmi e
permetteva di toccarlo fin con le scarpe.

Era la mia ombra.”

In questi versi ritorna prepotentemente il tema dello straniamento: l'ombra, con ogni evidenza, c'è sempre stata, è sempre stata presente, ma ora viene considerata, riconosciuta, conosciuta con occhi nuovi, vista come fosse la prima volta.
In “Confidenze confidenziali” la necessita di confronto con un interlocutore diviene ancor più presente, pressante, potente. Tale necessità s'incarna in numerose figure, più o meno reali, più o meno esistenti, concrete, anche se non è forse del tutto azzardato ipotizzare che Bondarenko, di fatto, più che rivolgersi a persone specifiche, individualizzate, si rivolga a ciascuno di noi in qualità di lettori, di “hypocrite lecteurs”, e per attrarre la nostra attenzione, probabilmente anche la nostra partecipazione, di certo non si risparmia. Il lettore avrà modo, leggendo le poesie della nostra, di verificarlo di persona.
Riprendendo quindi e ulteriormente il succitato concetto di straniamento nonché le varie difficoltà specifiche legate alla peculiare condizione di donna e di migrante dell’autrice, alcuni significativi esempi si possono riscontrare nei seguenti versi:
“Senza amore
boccheggio come un pesce fuor d’acqua,
sbatto la coda sul tagliere per protesta,
con l’occhio ben lucido, ancora per poco,
 che finisce
per chiedere pietà ad un coltello appeso al muro.

Avessi i piedi – andrei a cercarlo,
      (l’amore… intendo)
anche sui carboni ardenti della griglia pronta
che più degli altri mi capisce.”

Oppure:

“Volevo essere anch’io tutta sua
con un anello sulla zampa
pieno di dediche per sempre

stare nel mio cortile,
 volare sempre basso,
ingrassare per bene
per essere cucinata
nel giorno del (suo) ringraziamento.”

Laddove l’autrice si reinventa, si propone quale oggetto, argomento “gastronomico” nel tentativo di intraprendere una qualche forma di comunicazione con il proprio potenziale interlocutore.
Ed in questa condizione di svalutazione definitiva e assoluta di qualsivoglia rapporto umano, tutto viene visto e considerato in un ottica di tipo mercenario, in cui impera una corsa al ribasso per ciò che riguarda quelli che di fatto di solito vengono, appunto, considerati come “valori” indubitabili, a cominciare dall’ “anima”:
“Ieri notte
nel sogno,
ho chiesto tramite Goethe
 al suo amico prediletto, Mefistofele,
cosa pensa di me compresa la mia anima,
 e stanotte,
nella fretta del risveglio
ci siamo messi d’accordo sul prezzo

           (non sapevo che i saldi
           fossero iniziati da un pezzo).”

Poiché se si rimane esclusivamente legati al gioco delle apparenze, se si considerano e si valutano solamente queste ultime, il risultato finale non può non essere che di alienazione, d’incomprensione, di smarrimento. Si vedano in tal senso i seguenti versi (anche se gli esempi a tale riguardo potrebbero essere molto più numerosi):
“Mi prendi in giro tu
per come parlo la tua lingua,
per come sfuggo alle sue regole
per come la maltratto (per forza di cose),
ma è soltanto un fatto di abitudine,
trasmesso da madre a figlia, dal seno al sangue,
dalla radice all’albero che combatte la sete
 e non muore. Perciò, stai rimbambocciato
quando prego, le mani nelle tasche,
nel caso peggiore – dentro il naso, a dubitare
della mia vecchia abitudine
di rimanermi fedele. Sapessi com’è difficile
abituarsi all’ignoto. Mi prendi in giro (tu)
per come vivo senza vivere. Per come tento
di vivere quando spezzo il pane o
taglio a cubetti regolari la verdura
per l’insalata russa che non ti piace
dentro un alveare umano
prima che suoni il campanello
dove il vicino è soltanto uno sconosciuto
e tu,
che dividi il letto con me
sei ancora più sconosciuto del mio vicino.”

Eppure, quasi ne fosse filiazione diretta, l’apparenza sembra condurre in modo diretto, quasi inevitabile, all’ “abitudine”, alle “bugie della routine”, in un percorso, a tratti estremamente banale e lineare, a tratti complesso, confuso, vorticoso, ma contraddistinto dall’ineluttabilità e dall’irreversibilità. Anche a tale proposito gli esempi che si potrebbero segnalare sono numerosi, tuttavia si consideri quanto viene espresso di seguito:

“Piangere

                (non esiste la certezza del tuo piangere
                come non esiste un libro nella mia libreria
               con le pagine ancora incollate,
               golose di occhi)…

Le parole – noccioline da sgranocchiare,

              (meglio se coperte di cioccolato)

si  incastrano fra i denti, tagliano la lingua,
senza ferire

(è questione di abitudine).

Da evitare
la fine dell’estate comprese le acque passate
le docce senza conto, comode per piangere,
le guerre degli orari, le bugie della routine,
la resa precoce davanti a un silenzio d’acciaio

                 (fatto di forchette e di coltelli,
                  di serrature senza chiavi)

le diete a base di yoghurt e cereali, il “miagolio”
di Philip Glass e le previsioni del tempo

per il resto,
come ti dicevo prima,
è, soltanto, una questione d’abitudine.”

Viene infine, leggendo le poesie di Natalia Bondarenko, da chiedersi che cosa quindi per lei possa rappresentare l'arte, la poesia. Una risposta univoca ed esaustiva è evidentemente azzardata, limitante e limitata. Non ritengo, tuttavia, del tutto impropria la definizione di arte intesa come
“... un atto di malcelata seduzione, o meglio, è un tentativo di seduzione, ovvero, nella peggiore (e più auspicabile) delle ipotesi, un mancato atto di seduzione mancata...
E' quindi, diviene quindi, un atto di rabbiosa vendetta, un atto di “espressione”, nel primitivo significato di ex-pressione, un atto di vera e propria violenta, selvaggia, irriflessa spinta, espulsione verso l'esterno di ciò che l'animo esasperato ed esausto dell'artista non riesce più a contenere, a sopportare...
L'arte in sintesi è il tentativo di riunire, di assemblare in un discorso lineare, comprensibile l'indecifrabile, inesprimibile polifonia-polifobia dell'anima...”
In un processo continuo, irrisolto ed irrisolvibile in cui itinerario conoscitivo e autoconoscitivo, necessariamente, inevitabilmente, coincidono. Nell'opera di una poetessa che nella sua particolare condizione di donna e di artista in una “terra altrui” dopo tutto conclude affermando:

“...
e le finestre ad Est, chi sa perché, terrò sempre aperte.”

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