Bukovaz: un’intervista alle dieci di sera. Di Natalia Bondarenko


Fare un’intervista alla Bukovaz? Mandarle le domande e non ricevere mai le risposte. Aspettare. Aspettare mesi. Qualcuno ha già fatto un tentativo. Probabilmente non l’unico. L’ho fatto anch’io, il tentativo. Inutilmente.
Allora faccio la ‘furba’. La ’becco’ dopo una sua serata a Palmanova e le propongo di bere qualcosa. Siamo amiche. Almeno così io vedo il nostro rapporto. So tante cose di lei e allo stesso tempo non so niente. Perché in realtà, Antonella (o Antonellina, come la chiamo io) è una persona aperta abbastanza per rimanere chiusa; è chiusa abbastanza per rimanere simpatica e spiritosa; è una donna accogliente e accomodante, nonostante gli spazi d’incontro ‘affollati’ come le serate di poesia.
A Palmanova tutti vogliono parlare con lei e la aspetto con pazienza. È già tardi. Quasi le nove. Io ho fame. Antonella – no. Troviamo un bar nelle vicinanze e prendiamo due centrifugati alla mela e zenzero, come cena. Lei non sa, ma io accendo il registratore del telefonino ed inizio a registrare la nostra chiacchierata. Le chiedo scherzando della mia intervista, le domande che le ho inviato e lei ridendo mi risponde che preferisce scrivere più di me che di se stessa.
Per me la poesia come spettacolo era e rimane un mistero: intendo la videopoesia, il teatro e tutte le forme possibili ed insolite di proporre la poesia al pubblico, compreso i Poetry Slam. Prima ancora di conoscere personalmente Antonella Bukovaz, mi è capitato di vedere i suoi video su You-tube. Erano fatti con una certa maestria.  Poi, quando due anni fa è uscito un suo CD intitolato CASADOLCECASA, con la partecipazione di un trombettista meraviglioso come Sandro Carta, la violoncellista Antonella Macchion e la rumorista Eva Croce, un perfetto surrogato di sentimenti, rumori e parole, ho iniziato seriamente a seguire ogni sua produzione. 

Ma per fare la prima domanda la devo inserire in un contesto nascosto e, sorseggiando il centrifugato dalla cannuccia, stuzzico Antonella:
«Quando leggi tu, sembra di sentire una musica. Dovresti leggere più spesso. Dovresti fare più reading anche se sono veramente curiosa: perché questa scelta di portare la tua poesia su grande palco, in teatro o in forma radiofonica, perché questa predilezione verso una forma del teatro così rara e credo faticosa da realizzare?»
«Ma no, Natalia, niente scelta qua. Nel senso che… anni fa, Hanna Preuss, questa musicista che vive a Ljubljana, ma di origini polacche, è stata ospite alla STAZIONE DI TOPOLO: ha sentito delle mie cose… lei non capisce l'italiano… mi ha chiesto per questo primo spettacolo per il quale abbiamo lavorato insieme, (e dopo con questo spettacolo siamo stati in Giappone, abbiamo fatto un bellissimo tour…), insomma… mi ha chiesto il testo per il teatro, il  testo in lingua italiana. Allora io ho scritto questa cosa, sono andata a Ljubljana, le ho letto il testo e questa sua attenzione verso il suono mi ha dato una certa sicurezza. Lei era molto affascinata dal  suono delle parole ma, non so, probabilmente, prima di tutto, sentiva anche un certo interesse verso di me come persona. Perché solo in un secondo momento si è interessata a che cosa ho scritto. Perché per lei la prima cosa era il suono. Sai che all’inizio io ero quasi non po’ offesa però, ero un po’ scettica. Perché… come... io ti scrivo una cosa e non ti interessa cosa significa?  Perché io invece ero molto concentrata sul significato delle cose. E devo dire che quello ha fatto una prima differenza nella mia scrittura».
«Quando è successa questa cosa? Tanti anni fa?»
«Sì, sì. E poi abbiamo fatto tre spettacoli nei quali io ho recitato, perché lei mi ha chiesto di recitare quello che avevo scritto. Infatti all’inizio ero titubante. Le risposi: “Ma io non lo so a memoria”. “Come” mi fa, “non lo sai? Hai scritto questa cosa e non lo sai?” Questa polacca! Capisci? Puoi lei mi dice: “Le cose che hai scritto – devi saperle a memoria”. E questa è stata seconda grande differenza nel mio lavoro con la poesia.  Prima non avevo mai imparato niente a memoria. Poi ho pensato che sono cose mie, e sono tanto più mie quanto più io riesco ad averle dentro di me, anche nella memoria. Per cui questo lavoro con lei è stato non soltanto un lavoro di teatro, ma è stato un lavoro di grande riflessione all’interno della parola poetica perché le ha dato il suono e ha dato corpo alla memoria…»
«Un corpo di reato?” scherzo, «E non sei ti fermata lì, hai fatto CASADOLCECASA. Anche lì  si manifesta la tua esperienza teatrale?»
«Perché a me piace lavorare con le persone. Il poeta è sempre solo: solo quando scrive, solo quando legge, quando lo invitano da qualche parte – va da solo… Allora, io vado anche da sola volentieri, però avere le immagini e i suoni mi ha consentito di fare delle cose insieme ad altri. Che significa non solo proporre le cose insieme, ma anche cambiare il ritmo: io leggo, ci mettiamo il rumore, proviamo, io dò un altro respiro…»  
«Tu non hai paura di essere un po’ demodé visto che questo tipo di spettacolo appartiene agli anni ’80? O non te ne frega niente?»
«Non ci ho mai pensato per dire vero. Soltanto cerco di fare cose che per me hanno un certo significato e piacciono a me…»
«Ti è andata male», scherzo, «perché piacciono anche al pubblico…»
«Infatti, nel momento in cui faccio il lavoro che mi piace fare, io penso che poi, in automatico, le persone che vengono ad ascoltarci, godono di questo piacere che noi abbiamo. È quella la cosa che funziona».

Poi parliamo di cose private: mie, sue, nostre. Scappano le confidenze, i segreti, le differenze…

“Vorrei cambiare discorso: come senti il tuo essere slovena e il tuo scrivere soltanto in italiano?»
«Ho sempre vissuto un grande imbarazzo per il fatto di non scrivere in sloveno. Infatti, adesso ho una pubblicazione bilingue che mi mette il cuore in pace con questo ‘dilemma’…» risponde Antonella sorridendo.
«Sai, ogni tanto mi chiedono di dove sono io ed io di solito rispondo che sono sovietica. Probabilmente così mi sento, anche se l’Unione Sovietica non esiste più. E se ti dico adesso che sei una jugoslava, tu ti incazzi?»
«Nooo, io sono orgogliosissima di esserlo».
«Parlando seriamente, c’è qualcosa nelle tue poesie che ci fa pensare alle tue origini?»
«Tutto!» esclama, «non so come sarebbe andata se fossi nata altrove. Per me è assolutamente importante la geografia nella quale sono cresciuta, dalla quale vengo, alla quale mi sento di riferirmi per qualsiasi cosa. Tutto questo lo sento da una parte come un regalo, da un’altra parte  come un legame dal quale non si può scappare… è un intreccio di cose nel bene e nel male che però hanno a che vedere con una terra precisa, con la storia specifica del confine dentro una comunità slovena che è una minoranza di quel territorio. Qui io sento una energia che mi ritorna e che non avrei altrove. A me non interessa una bella città, un bel paesaggio, il mare… tipo il mare Caraibico… le situazioni perfette… anzi, proprio la problematicità di questa terra ha contribuito alla nascita della mia parola poetica… ho anche un legame (se si può dire) di riconoscenza».

Passa quasi un’ora. Antonella riceve una telefonata ed esce fuori per parlare. Io ordino il secondo giro di centrifugati. Ho fame, ma resisto. Quando Antonella rientra e trova di nuovo il bicchiere pieno, esclama che “è troppa roba”. Penso a questa ragazzina adulta nel corpo di una adolescente e da un lato la invidio perché sicuramente a lei  una dieta come a me – non serve a niente. Da un altro lato ho voglia di dirle con un sentimento fraterno che dovrebbe mangiare qualcosa. Anche la battuta mi viene spontanea: conoscendo Antonella, lei, la poesia la ‘mangia al dente’ e probabilmente la fame per lei è un concetto molto relativo. 
Fra due battute cerco di trattenerla ancora per l’ultima domanda, un po‘ provocatoria e in qualche senso ironica:
«Tempo fa ho letto una tua poesia su facebook, dove c’era una frase che mi ha colpito molto: tu, fra le righe, ti definivi una ‘donna giusta’. Ma sei sicura?»
«Io ho scritto quella cosa lì in un momento della mia vita dove mi sentivo in assoluto più  sbagliata...»
«Allora era una bugia?»
«No, non era una bugia…  a proposito, se vuoi sentirla – te la leggo…

Allora guardami
io sto
non è solo scrivere
faccio ciò che dico
sto
ti do la mia pelle
sono una donna giusta
nel mio stare
ho incollato il passato
leggo
il dolore alle foglie
anche il tuo.

Ecco... all’interno di tutti gli errori della mia vita, dei quali però mi sento consapevole, avevo improvvisamente avuto un attimo… quando ho scritto ‘sono una donna giusta’... dove essere giusti non significa né avere ragione, né fare le cose per bene, né essere, come dire,  coerenti… queste sono tutte sovrastrutture dell’essere giusti, essere una donna giusta significa abbandonarsi ad un istinto di sé che ti porta magari a fare cose che non hai  proprio scelto di fare, che ti porta ad essere come tu non ti aspetteresti mai, e ti fidi e quando ho sentito di potermi fidare di me, mi sono sentita giusta!»

Spengo il registratore e le confido la mia furbata. Lei non si arrabbia. Ride. Mi dice di scrivere questa intervista. Si fida di me. Lo sento. Si fida come si fiderebbe della sua rumorista, della violoncellista o del suo trombettista, o di Hanna Preuss, e questo mi fa sentire una privilegiata.

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